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di Paolo Martini

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13 gennaio 2010


Ci sono copioni storici che non perdono mai di freschezza. E così, a partire dalla Toscana, è come se si stesse rianimando all'improvviso in Italia la mappa delle città dei ghibellini: l'elenco va dalla A di Arezzo, che si è aggiunta a fine novembre al nugolo di comuni che sono andati nella direzione tracciata da Calenzano (Firenze), fin quasi alla S di Siena, dove solo per un ripensamento all'ultimo di mezzo Partito democratico locale, si è trovata la formula pilatesca di una «impossibilità tecnica per il Comune» per non riaprire le millenarie lacerazioni.
Non mancano i grandi centri: ovviamente, la città più combattuta, Firenze, e due importanti civitas guelfe come Bologna e Genova. Nella capitale ligure la sfida è suonata simbolicamente più forte: è la sede arcivescovile del presidente dei vescovi italiani, Angelo Bagnasco. Il cardinale ha voluto prontamente mobilitare i cattolici, in un insolito mercoledì sera, il 25 novembre scorso. La Cattedrale di San Lorenzo si è trasformata in sede di manifestazione, con Giuliano Ferrara che arringava tra gli applausi i presenti (1).
È proprio così: nonostante un bel passo decennale già compiuto dentro al terzo millennio, per certi oscuri incunaboli della storia, in Italia da qualche mese si sentono risalire gli spifferi della grande temperie tra le due opposte fazioni medievali. Eppure è facile non accorgersene: il centro della contesa paradossalmente ci riguarda tutti così da vicino, e così profondamente, che preferiamo girare la testa dall'altra parte. Si nota persino dal linguaggio, che reinventiamo alla bisogna. Il tema generale viene delicatamente rubricato con una definizione complessa come "fine vita", e poi ciascuna fazione sceglie gli eufemismi più consoni. Da una parte si punta a far fiorire dal basso l'istituzione di registri dove depositare i cosiddetti "testamenti biologici". L'obiettivo? Fare in modo che, a prescindere dalla legge nazionale, ciascuno abbia la possibilità di dichiararsi a priori contro ogni accanimento terapeutico, in sede municipale, provinciale o anche solo d'istituzioni religiose riconosciute come la Chiesa valdese, che a Milano ha annunciato l'apertura di «uno sportello pubblico per la raccolta delle direttive anticipate di fine vita». È una sorta di fuga in avanti, caldeggiata dai radicali dell'associazione Luca Coscioni, che mira a sollevare un conflitto a priori sulle leggi in discussione, ancorché decisioni del genere siano alquanto anomale e di dubbia costituzionalità, dato che incide sulle materie di potestà di legislazione esclusiva dello Stato.
Dall'altra parte ci si abbarbica intorno al neologismo burocratico che in sigla fa Dat: sono le "Dichiarazioni anticipate di trattamento" regolamentate dal disegno di legge presentato dal relatore Domenico Di Virgilio del Popolo delle libertà alla commissione Affari Sociali della Camera. È un testo che ricalca le normative strappate al Senato ormai quasi un anno fa sull'onda emozionale del caso di Eluana Englaro e che doveva affrontare a dicembre del 2009 l'aula di Montecitorio: sono 2.700 gli emendamenti già presentati, che spaccano trasversalmente gli schieramenti politici. Al centro dello scontro tra guelfi e ghibellini è soprattutto il tema delle cure estreme in rapporto alla volontà del morente. L'articolo 3, comma 6, prevede: «L'alimentazione e l'idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita. Esse non possono essere oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento» (ovvero dei Dat o biotestamenti). Una restrizione che all'articolo 7 della stessa legge viene come raddoppiata: «Le volontà espresse dal soggetto nella Dat sono prese in considerazione dal medico curante che, sentito il fiduciario, annota nella cartella clinica le motivazioni per le quali ritiene di seguirle o meno».
Nel 2010 c'è da prepararsi a un'altra bagarre: ci sono la discussione in aula a fine gennaio della legge e a ruota (sic!) la nuova canzonetta provocatoria di Povia al festival di Sanremo sul caso Englaro e sull'eutanasia... Eppure quello di cui stiamo parlando è un tema che merita ben più di una qualche scaramuccia tra opposte fazioni: con la medicina che affronta quotidianamente nuove sfide e sembra dominare le nostre società opulente, in una civiltà dove il progresso scientifico ha fatto scattare quella trappola per l'uomo che è «la solitudine del morente» di Norbert Elias (2) nelle gelide strutture sanitarie, le bandiere da sventolare e le risse pregiudiziali non ci porteranno da nessuna parte. Ci sono ragioni evidenti per riflettere attentamente, in modo freddo e anglosassone anche nel linguaggio, sulle modalità e i costi di una End of Life Care Strategy statale ormai inevitabile. Ma non si può non cogliere anche il profondo valore della diffidenza «contro la prevalente mentalità efficientistica» che tende a farci spostare in avanti il confine stesso del «senso della dignità umana», così come ha voluto ribadire papa Benedetto XVI nell'ultima sortita di fine 2009, in un centro romano di cure palliative per malati terminali di cancro, d'Alzheimer e di Sla.
A togliere di mezzo ogni certezza, da una parte e dall'altra, non ci sono solo i clamorosi casi di cronaca, l'ultimo dei quali è stato la straordinaria rinascita del belga Rom Houben, dopo ventitré anni di coma vegetativo. Se ci si addentra nel dibattito neurologico e nei meandri dei protocolli medici sul fine vita, tra le righe di testi chiave come il Liverpool Care Pathway for the Dying Patient come su e giù per le Scale di Glasgow o delle varie Coma Recovery Scale, si rischia facilmente di salire la scala a chiocciola del grande Yeats (3) senza nemmeno il fascino magico originale: di perdersi cioè con lo sguardo in quella notte dell'oscurità dell'anima. Come dice il poeta: «Who can distinguish darkness from the soul?», chi può distinguere il buio fuori da quello dentro di noi? Sarà un caso, ma anche in Germania, che in fondo di guelfi e ghibellini è la nazione matrice, dopo l'approvazione il 1° settembre di una legge sul Patientenverfügung si è riaperto il dibattito sul biotestamento e il "fine vita". Dall'università di Tubinga è spuntato addirittura uno studio dal risultato più che provocatorio: delle centomila persone all'anno che subiscono lesioni cerebrali gravi in Germania, «circa il 40 per cento potrebbero essere stati giudicati erroneamente in stato vegetativo». Chissà se ripartire da un approccio antropologico non ci serva a distinguere qualcosa in questa oscurità, profonda e insieme radicata in ciascuno di noi, come il poeta ci ricorda.

13 gennaio 2010
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